Violenze in carcere, e non solo
Nel luglio 2021, tutti i media, se pure con intonazioni diverse, hanno riportato i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo che era circolato un video che mostrava una serie di violenze esercitate dalle forze dell’ordine a danno dei carcerati: calci, pugni, insulti, umiliazioni contro chi era inerme, con le mani alzate, persino a un detenuto costretto su sedia a rotelle. Insomma, vessazioni che rientrano nell’ambito dei tanti modi in cui si declina il concetto di tortura.
Tortura che, in Italia, è considerata reato dal luglio 2017, con l’entrata in vigore della legge al riguardo, la cui discussione si era protratta per quasi 30 anni, anni irti di una infinità di ostacoli, attribuibili a un’innegabile diffusa tendenza a giustificare i comportamenti aggressivi a opera dei tutori dell’ordine a danno dei cittadini, detenuti o meno che siano. La storia della tortura è antichissima e ben documentata dagli studiosi. Limitando l’ottica solo ai tempi più recenti, l’idea di fondo che le carceri possano essere per loro stessa natura luoghi di prepotenza e prevaricazione tra i detenuti e sui detenuti, è estremamente diffusa, anche perché supportata da un’enorme filmografia, ricca di lavori di basso livello, atti a soddisfare, con la messa in onda di una sadismo fuori controllo, i bisogni voyeristici e morbosi di una vasta porzione di pubblico.
Ma anche di opere importanti, di esplicita denuncia di un sistema malato, divenute in modi diversi dei cult-movies dalle più svariate ambientazioni: tanto per citare Papillon (1974; Guyana francese); Fuga di mezzanotte (1978; Turchia); Nel nome del padre (1993) e Hunger (2008) (Irlanda del nord). Solo l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda gli Stati Uniti: Brubaker (1980); Fuga daAlcatraz (1979); Le ali della libertà (1994); Sleepers (1996). Per arrivare ai nostri giorni con The Mauritanian (2021), trasposizione cinematografica del libro autobiografico I diari di Guantanamo che raccontano i 14 anni di prigionia di Mohamedou Ould Slahi dopo l’11 settembre: è la ricostruzione non solo di una incarcerazione risultata ingiusta, ma anche di mesi di deprivazione sensoriale, torture, assalti sessuali.
Che non si trattasse di fatti isolati, ma di procedure abitudinarie, lo affermarono in seguito i due psicologi, James Mitchell e John Jessen, ritenuti e dichiaratisi ideatori di alcune tecniche di interrogatorio, tra cui il famigerato waterboarding, che, nel caso di un detenuto, Khalid Sheikh Mohammed, fu applicato 183 volte in 15 giorni. Limitandoci alle cose di casa nostra, senza dimenticare Detenuto in attesa di giudizio con la denuncia, regolarmente rimossa, di Alberto Sordi dei mali grotteschi del nostro sistema giudiziario, è doveroso ricordare Diaz (2012), drammatica ricostruzione dell’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola omonima al termine dei lavori del G8 di Genova e delle successive torture praticate a Bolzaneto nel luglio 2001. Nonché Sulla mia pelle (2018), che ripercorre le fasi della tragica morte di Stefano Cucchi, per la quale si è alla fine giunti alla condanna di due carabinieri. Ma esiste anche, sebbene poco noto, un docu-film biografico-sociale, Ossigeno (2012), sulla vita di Agrippino Costa, uno che di carcere se ne intendeva, avendovi passato 20 anni della sua vita, 12 dei quali nelle carceri speciali: la ricostruzione che ne fa è sconvolgente, riferita, tra le altre cose, alla normalizzazione dei soprusi da parte delle guardie, alla prassi consolidata dei pestaggi programmati, che i detenuti aspettavano con la terrorizzata consapevolezza di non potervisi sottrarre, al ripetersi dei passaggi obbligati nello spazio tra le forche caudine delle guardie che colpivano con calci, pugni, manganelli.
Il senso di oppressione è racchiuso in quel titolo, Ossigeno, che è un anelito a poter respirare. Non risulta ne siano seguite denunce di falso. E nemmeno che ne siano seguite indagini di alcun tipo. La cultura quindi, popolare o meno che sia, si è sempre nutrita di queste consapevolezze, dove le ricostruzioni documentaristiche si confondono senza distinguersi dalle opere di fantasia: proprio perché evidentemente esiste un brodo di cultura che le violenze in carcere le favorisce e la gente comune ben poco se ne meraviglia, lo considera un dato di fatto, delegando se mai agli esperti il compito di stabilirne la genesi. In altri termini ancora le ricostruzioni colludono con il sentire comune costruito sull’idea di carcere come luogo di punizione, come sanzione afflittiva, in grado di retribuire la società per il male commesso, non esente quindi da potenziali derive incontrollabili; il tutto a grande distanza da un progetto riabilitativo e rieducativo, pure ormai previsto a livello legislativo.
All’interno di questa cornice, non è neppure il caso di guardare fuori dal mondo occidentale, nei paesi dove i diritti umani sono carta straccia: nessun commento sarebbe in grado di dare forma alle reazioni di sconquasso del pensiero davanti ai documentari che, on line, è possibile reperire. Restiamo quindi nei limiti del «nostro» mondo: Susan Sontag, quando parlava della sconvolgente testimonianza che le foto di guerra ci offrono, sollecitava a guardarle pensando a tutto quello che non mostrano; in altri termini, spesso ciò che emerge magari molto faticosamente da molte denunce, è solo la punta dell’iceberg di qualcosa di ben più vasto e drammatico. Il suo appello a non costringere il pensiero entro i limiti dell’informazione offerta, penso vada a buon diritto accolto per i casi di torture emersi nelle carceri italiane, che rimandano a una realtà ipotizzabile come ben più estesa. Le denunce, ora che la legge esiste, sono diventate frequenti, spesso presentate dai parenti dei detenuti attraverso l’associazione Antigone (non a caso il nome è quello della protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle, che ostinatamente pone le regole della morale al di sopra di quelle stabilite dalla legge). I fatti riguardano carceri di città diverse: Ascoli Piceno, Piacenza, Modena, Rieti, Monza… Gli episodi denunciati, poco dissimili l’uno dall’altro, parlano di interventi violenti di operatori carcerari che infuriano sui detenuti.
Lo fanno difesi dalle loro divise, che sostituiscono la propria identità con un’identità collettiva; spesso hanno i visi nascosti da caschi e visiere abbassate, a proteggerne l’anonimato; usano calci e pugni, ma anche manganelli; sono in tanti contro uno solo; picchiano furiosamente mentre l’altro, indifeso e quasi denudato, cerca di proteggere qualche parte del proprio corpo, in un’impresa impossibile perché i colpi arrivano da più parti e centrano indifferentemente la testa, il viso, le gambe, i genitali, le braccia. Le urla sono il sottofondo che rende più spaventosa l’aggressione; gli insulti sono la norma che sancisce che la vittima non vale nulla; l’umiliazione è parte del tutto. Non mancano variazioni sul tema, come già si è visto, con pestaggi su chi è chiuso in ascensore e quindi in una situazione fortemente claustrofobica, che dilata il vissuto di impotenza; o su chi è in carrozzella e quindi ancora più debole. Non c’è via di scampo per nessuno.
A interrompere il disastro morale potrebbe risvegliarsi una sopita forma di empatia, che sembra però latitare per quasi tutti. Quasi, come vedremo. Se le descrizioni sono spaventose, i filmati lo sono di più, come avvertono le intro on line: Si informa che il filmato, a causa di scene particolarmente violente, può disturbare la sensibilità di chi guarda. La sensibilità di chi guarda è in effetti molto disturbata, ma tale disturbo non autorizza a interrompere la visione allo scopo di difendere se stessi, pena la rinuncia al dovere di sapere, che è condizione imprescindibile per prendere posizione e provare ad agire. Dovrebbero farlo anche e soprattutto politici e commentatori, che, pur nelle diversità che li definiscono, tendono a tarare il grado di indignazione e il ricorso al garantismo del tutti innocenti fino all’ultimo grado di giudizio a seconda della convenienza. È un dato di fatto, per esempio, che la questione carcere, nella declinazione di tutte le sue problematiche, è regolarmente assente dalle campagne elettorali, per il semplice motivo che non interessa, il che, nella traduzione politica, significa che non porta voti.
Il carcere e i suoi inquilini, oggetto di una vasta rimozione, non disturbano i pensieri della gente, sono confinati in una grande discarica dove buttare i colpevoli di qualsivoglia reato, in quanto tali considerati ricettori del male, di quel male di cui noi, quelli fuori, non essendone imputati a norma di legge, siamo felici di riconoscerci innocenti. I politici, che in genere non vivono di ideali, ma di sondaggi, pur divisi su tutto, appaiono uniti in una comoda alleanza in linea con il pensiero comune. Li rassicura forse la considerazione che, in occasione di soprusi violenti, mai ne risulta vittima uno che conta, un colletto bianco (per altro categoria poco rappresentata nelle patrie galere) o un boss riconosciuto: solo i più reietti, che si tratti di immigrati, spacciatori di piccolo calibro, gente comune. Il che induce tra l’altro alla riflessione che i «picchiatori», lungi dall’essere ottenebrati dall’ira, siano ben capaci di intendere e volere mentre buttano all’aria ogni norma, anche morale. Al di là del doveroso accertamento dei singoli fatti, resta una fondamentale domanda di fondo: perché, come è possibile, quali sono le dinamiche alla base di comportamenti che certo non sono la norma, ma sufficientemente diffusi da esigere interventi specifici in difesa dello stato di diritto?
Assolutamente fondamentale richiamarsi agli studi di Philip Zimbardo, psicologo statunitense di prestigio mondiale.
PHILIP ZIMBARDO E IL MALE SITUAZIONALE
Lo studio condotto nell’agosto del 1971 all’Università di Standford, California, da Philip G. Zimbardo(2007) riproduceva una situazione fittizia in cui venivano calati nel ruolo di carcerati e carcerieri 24 studenti universitari, scelti tra quelli «normali», non affetti da alcuna patologia fisica o psichica, almeno per quanto fu possibile definire. Vennero reclutati per un esperimento inizialmente teso a studiare i modi dell’adattamento al carcere e furono assegnati del tutto casualmente a rivestire il ruolo di guardie o di prigionieri; furono portati all’interno dell’università dove tutto venne ricostruito nei minimi particolari in modo da riprodurre l’ambiente di una prigione; le guardie indossavano uniformi color cachi e non mancavano degli accessori regolamentari (occhiali a specchio, manganelli, fischietti…), i prigionieri uniformi da galeotti, sandali di gomma, nessun indumento intimo, catena al piede. I rituali degradanti furono i primi atti agiti dagli uni e subiti dagli altri.
L’esperimento previsto della durata di due settimane dovette essere sospeso dopo solo sei giorni a causa del serio pericolo per l’incolumità fisica e psichica dei carcerati, dal momento che i carcerieri avevano cominciato a mettere in atto immediatamente condotte sadiche, aggressive, violente, tali da provocare nelle vittime seri rischi personali, che andavano ben al di là di quanto previsto dall’esperimento stesso. Naturalmente la realtà non era del tutto omogenea: tra le guardie una (Geoff Landry) fu descritta come onesta e giusta e i gradi di sadismo non risultarono gli stessi in ognuno dei perpetratori di violenze; analogamente tra i detenuti non tutte le reazioni furono significative di una stessa sofferenza e reazione da stress. L’impatto emotivo sugli uni e sugli altri quindi non fu identico, tanto che, accanto a chi volle interrompere l’esperimento dopo sole 36 ore, ci fu chi dichiarò che sarebbe stato disponibile a continuare anche dopo che ne venne decretata la fine. Per anni, seguirono innumerevoli studi atti a interpretare i dati emersi, che avevano di fatto messo in luce dinamiche sbalorditive, che non erano state previste nemmeno dagli stessi sperimentatori.
Come era possibile che ragazzi che mai avevano compiuto atti crudeli o violenti, che non provenivano da ambienti degradati, studenti in un periodo di grandi trasformazioni libertarie, potessero in uno spazio di tempo misurato in ore trasformarsi in aguzzini spietati e infierire contro ragazzi della loro età, colpevoli di nulla, mettendo in atto comportamenti sadici, violenti, efferati? Zimbardo, che ancora oggi a distanza di mezzo secolo viene regolarmente intervistato al proposito, sostiene che il male è spesso situazionale, frutto non di disposizioni personali disfunzionali, ma del ruolo che si ricopre: il confine tra bene e male, lo ribadisce in continuazione, è labile e chiunque lo può oltrepassare con grande facilità se immesso in particolari contesti. All’abusato concetto di mele marce, di norma usato per descrivere gli scandali che scoppiano all’interno di alcune istituzioni totali, lui continua a contrapporre il concetto di cesto marcio: non sono individui aberranti a compiere azioni riprovevoli a danno di un’istituzione, ma sono certi tipi di istituzioni a costituire il contenitore, il contenitore guasto che contagia chi vi è all’interno. Il cesto marcio nello specifico è da individuare nella stessa struttura carceraria, punitiva, definita da duri rapporti di potere, dalla convinzione che tutto il male sta dalla parte di chi è lì per scontare le sue colpe, che fanno di lui un essere disprezzabile, immeritevole di rispetto, mentre dall’altra i tutori di ordine, disciplina, legalità identificano se stessi come i rappresentanti della Giustizia con la G maiuscola.
Tutto l’apparato carcerario può supportare queste convinzioni, dalle divise degli operatori corredate da pistole, alla riduzione dei carcerati a un po’ meno che adulti: non è privo di significato che ancora oggi, nelle carceri italiane, le richieste dei detenuti, inoltrate alla direzione, siano definite domandine, termine che umilia i loro autori, incassandoli in un ruolo di scolaretti davanti all’insegnante: potenza del linguaggio, che non è certo casuale. Per chiarire ancora meglio: se un contesto è caratterizzato da rapporti di potere a da comportamenti di grande durezza, questo stesso contesto può divenire causa prima della prepotenza esercitata nei confronti di chi è indifeso. Certamente non deve essere ignorata l’eventuale presenza di persone con strutture sadiche di personalità, ma è fondamentale occuparsi dei meccanismi attivi nei contesti in cui agiscono: esercitare, in contesti difficili, un potere riconosciuto su un altro che si trova in una posizione fortemente subalterna diventa il nucleo di comportamenti che si alimentano poi della parte peggiore di sé, di noi. Perché una parte negativa, un’Ombra, fa di certo parte del mondo interiore di ognuno di noi e la possibilità del male ci appartiene in quanto esseri umani tanto quanto la possibilità del bene: esistono realtà che nutrono e alimentano le nostre disposizioni più negative, scardinano i freni inibitori, danno la stura al peggio. Interessante notare come nell’esperimento di Zimbardo emerga la figura della guardia buona, di quel Geoff Landry che si rifiuta di fare ciò che i suoi colleghi fanno, che ha il coraggio di opporsi e la forza di restare aderente a un proprio codice morale.
Anche nei fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere c’è un’analoga figura, quella della guardia che si oppone, anche se solitaria e invitata dal collega a farsi i fatti suoi. Si tratta di ben più di uno spiraglio di ottimismo: in ogni situazione è possibile opporsi, dire di no, non adeguarsi all’autorità o alla maggioranza: e questo riporta al ruolo della responsabilità individuale, da cui, comunque, non è lecito prescindere. La pregnanza di queste argomentazioni ha fatto di Philip Zimbardo un grandissimo esperto in materia: non a caso venne chiamato a valutare i fatti di Abhu Graib, dove alcuni soldati e soldatesse americani si erano macchiati dei peggio trattamenti a danno di prigionieri iracheni. Non ebbe difficoltà ad applicare la stessa chiave di lettura anche a quella situazione. Se l’oggetto di studio di Zimbardo è stato quello dei contesti carcerari, le sue considerazioni vanno estese ad altre realtà, la più mastodontica delle quali è quella bellica: in nessun campo come in quello di battaglia le brave persone possono agire come carnefici: è il male situazionale a trasformare gente qualunque, gente per bene in gente capace di stuprare, torturare, brutalizzare. Sulle dinamiche dei tempi di guerra gli studi sono infiniti, essendo, ahimè, quella della guerra una pratica conosciutissima, che ha accompagnato senza sosta la quasi totalità degli anni della nostra vita sulla Terra. Ma esistono altre realtà, abitate da simili dinamiche, dove l’attenzione è invece decisamente meno vigile, tanto per usare un’espressione eufemistica in luogo del più adeguato: che non interessano a nessuno, o quasi.
Si tratta di quelle in cui le vittime sono gli animali nonumani, una popolazione cioè che, per quanto infinita nelle dimensioni, fatica sempre ad essere presa debitamente in considerazione: il riferimento è ai mattatoi, luoghi dove i lavoratori passano la giornata a macellare animali a catena di montaggio, trasportandoli urlanti verso la morte, pungolandoli a forza, per poi passare alle fasi di un’uccisione e successivo squartamento difficili da descrivere: senza un attimo di respiro, in un inferno di sangue, lamenti, dolore. È questo lo scenario dove la violenza spesso esonda da quella «necessaria» a portare a termine il proprio compito di macellatore a quella supplementare che induce a tormentare gratuitamente, senza scopo, si potrebbe dire senza diritto, gli animali che già stanno soffrendo il dolore del mondo. Esattamente come nelle carceri avviene ai detenuti, che, vivendo una condizione che è per definizione di pena, di sofferenza, di privazione, possono diventare le vittime ideali di brutalizzazioni secondarie, ulteriori, gratuite. Esattamente come nelle guerre il nemico non è solo costretto alla resa, ma martoriato con violenze accessorie: massacri di civili, abusi sulle donne, distruzioni sconsiderate…
Non è stato casuale, all’interno dei fatti di Santa Maria Capua Vetere e delle altre carceri, l’emergere di un linguaggio metaforico, in grado di gettare un ponte tra la realtà delle torture da parte delle forze dell’ordine e quelle che vedono come vittime i nonumani. Sono state riportate dai media espressioni significative: qualche detenuto viene trascinato come un capo di bestiame (descrizione apparsa su Domani); un’orribile mattanza (commento del GIP che si occupa di Santa Maria Capua Vetere); una macelleria messicana (il vicequestore interessato ai fatti del G8 di Genova), abbattimento dei vitelli (conversazioni tra agenti nell’azione punitiva a S.M. Capua Vetere). Ora, l’uso di queste similitudini con quanto avviene nella nostra relazione con gli altri animali è quanto mai degno di approfondimento. Per esemplificare: il termine macelleria, quando chiamato a designare il luogo occupato da esposizione e vendita dei resti sanguinolenti di parti di animali, è privo di connotazioni negative, è l’insegna magari luminosa di un negozio, mentre, quando viene usato per connotare una situazione che coinvolge gli umani, acquista improvvisamente un significato orribile, generatore di raccapriccio.
Proprio come succede a mattanza, che ritrova il senso di azione ignobile solo se le vittime sono umane, a fronte della mattanza dei tonni, della mattanza degli agnelli, della quotidiana mattanza di tutti gli altri nonumani che pare non indignare affatto la grandissima maggioranza delle persone. E niente più dell’abbattimento dei vitelli è in grado di sollecitare l’immagine crudele della forza bruta che si abbatte su un innocente indifeso, così come indigna il trascinamento di un corpo come un capo di bestiame. Ma quando quel corpo è quello di un capo di bestiame lo sdegno è rimosso, negato, accucciato in una angolo della coscienza da cui torna a fuoriescire, esplodendo solo quando a soffrire è un umano. La diffusa assenza di riflessione al proposito ostacola quello che invece sarebbe un ampliamento necessario della similitudine: anche nei mattatoi, esattamente come nelle prigioni, esattamente come nelle guerre (ma si potrebbe andare molto oltre) esonda una brutalità accessoria a quella prevista: la situazione di dominanza di chi incarna il potere del momento su chi è reso debole dalla situazione, autorizzando l’uso di forza e di violenza, può sfociare, in certi casi inevitabilmente sfocia, in una violenza accessoria, inutile, fine a se stessa, espressione di una caduta di freni morali, di esondazione della parte più oscura e indecorosa della propria essenza.
I filmati clandestini che riprendono i terribili maltrattamenti accessori a danno degli animali al macello ne sono esempio inconfutabile: vere e proprie torture vengono inflitte non per bisogno (ammesso che si possa usare questo termine senza affogare nel cinismo), ma per il gusto di dare libero sfogo al proprio potere, in una drammatica assenza di empatia, nella patologica soddisfazione di tarare la propria potenza sulla debolezza dell’altro. Nel lessico di Zimbardo, non le solite mele marce invocate a giustificare l’ingiustificabile, ma le ricadute che è il cesto marcio a determinare. Sarebbe davvero necessario ripensare a tutto questo e riconoscere che lo sconquasso emotivo che accompagna il venire a contatto con la brutalità esercitata sugli umani dovrebbe a buon diritto conflagrare anche quando le vittime sono animali, sulla scorta di quella continguità di cui l’uso stesso delle metafore citate mostra vi sia una consapevolezza diffusa, per quanto inconsapevole.
Non sarebbe fuori luogo riprendere in seria considerazione quanto diceva, in modo simile a tanti altri pensatori, Edgar Kupfer-Koberwitz, reduce dall’internamento a Dachau, vale a dire che gli uomini saranno uccisi e torturati fino a quando gli animali saranno uccisi e torturati… poiché l’addestramento e il perfezionamento dell’uccidere deve essere fatto moralmente e tecnicamente su esseri piccoli. Anche il linguaggio che abbiamo ascoltato dovrebbe indurre a farlo seriamente: non possiamo aspirare alla tanto auspicata costruzione di società che si siano liberate dalla violenza se non facciamo che supportare i luoghi che di violenza sono le fucine. A danno di umani e di nonumani, senza differenza come dovremo prima o poi cominciare a capire: tutto ciò che di ignobile noi umani siamo in grado di compiere non è mai opera di marziani, ma frutto non programmato delle azioni che compiamo e di cui non percepiamo la portata in termini di conseguenze materiali e di tracollo etico.
Annamaria Manzoni
Psicologa, psicoterapeuta, grafoanalista e ipnositerapista
annamariamanzoni.blogspot.com
Bibliografia
Zimbardo Ph.G. (2007), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Milano, Cortina, 2008.