Della soppressione dell'empatia e della presunta crudeltà dell'uomo
Photo: Jo-Anne McArthur / We Animals
di Rita Ciatti – Le giustificazioni di chi mangia carne e non si oppone allo sfruttamento degli animali sono tante e spesso davvero assurde, ma la più obsoleta e meno efficace (anche se parecchio popolare) è senz’altro quella dell’asserita crudeltà insita nella natura dell’uomo, considerato specie predatrice per eccellenza, che altro non farebbe che seguire la propria indole e predisposizione alla sopraffazione e all’uccisione del più debole.
Ci terrei a rilevare la contraddizione interna a questa giustificazione: se fosse davvero così non si avvertirebbe questo bisogno di conferme e di validificazione della propria teoria (tanto spesso pronunciata con il sorrisetto a metà tra la rassegnazione e l’ostentata sicurezza di chi è convinto di aver rivelato una verità assoluta ed inconfutabile suo malgrado).
Se l’istinto predatorio appartenesse biologicamente alla specie umana allora non ci sarebbe bisogno di occultare e rimuovere tutti i processi che conducono allo sfruttamento degli animali non umani, né di soffocare e reprimere il sentimento della compassione.
Ammettiamo pure che natura e cultura coincidano nell’essere umano, ossia che pur non essendo nato carnivoro e non avendo i requisiti biologici adatti a predare (non possiede artigli, né mascelle e denti sufficientemente forti da sbranare un animale, né arti abbastanza veloci per inseguire prede o arrampicarsi sugli alberi) lo sia poi diventato con l’ausilio della tecnica, vorrei a questo punto precisare alcune cose: innanzitutto c’è una differenza enorme tra la predazione in natura e lo sfruttamento sistematico (e sistemico) degli animali non umani. Checché se ne dica, non sono affatto la stessa cosa.
Gli animali predatori cacciano per sfamarsi.
L’uomo caccia per sport e divertimento ed alleva, imprigiona, sfrutta, uccide, priva della dignità, riduce a cose, considera risorse rinnovabili gli animali perché agisce all’interno di un sistema (per questo dico “sfuttamento sistematico e SISTEMICO”) che si è andando storicamente e politicamente strutturando sullo sfruttamento del vivente e che, come tale, risulta essere niente di più di un mero costrutto socio-culturale (dal quale peraltro hanno da guadagnare i pochi a discapito di molti: oggi si chiama capitalismo, in altre epoche si è chiamato in altri modi ed era strutturato in altre maniere, l’unica cosa che rimane immutata è lo sfruttamento di molti ad opera di pochi su cui resta concentrato il potere, pur cambiando nei secoli la gestione interna o il meccanismo su cui si regge).
Ora, qualcuno potrebbe obiettare che la cultura è semplicemente la maniera in cui la specie umana si è evoluta nei secoli (dal primo momento in cui l’uomo ha iniziato a modificare il proprio habitat per piegarlo alla propria visione del mondo, costruito la prima ciotola per mangiare o piegato il primo ramo per farne un’arma, si può dire che egli non abbia fatto altro che produrre “cultura”, pure se, a mio avviso, vista in questi termini, anche i castori che costruiscono le dighe allora producono cultura, così come gli uccelli che si adoperano per fare i nidi e quindi non sarebbe una prerogativa tutta umana) e sostituisce ciò che per gli altri animali è natura. Bene. L’uomo però non si è evoluto solo culturalmente grazie all’ausilio della tecnica prima e tecnologia dopo ed avvalendosi della proprietà del linguaggio che gli ha permesso di tramandarsi le nozioni acquisite attraverso i secoli (altrimenti saremmo solo degli automi più o meno sofisticati), ma anche socialmente grazie allo sviluppo di organizzazioni comunitarie più o meno complesse le quali hanno portato in tempi moderni alla teorizzazione del diritto e all’acquisizione dei principi etici e morali, di giustizia ecc..
Tutto ciò non sarebbe stato possibile se l’uomo non fosse anche biologicamente dotato di quel sentimento – ormai ahimé, così banalizzato e depotenziato – che è l’empatia. Questo perché biologicamente è capace – grazie ai neuroni specchio – di riconoscere sé stesso nell’altro. Non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te è il principio morale che sta alla base del, che rende possibile il vivere sociale. Riconoscere ed isolare nell’uomo un presunto istinto a predare, ma neutralizzare quella componente tanto essenziale nella sua evoluzione che è l’empatia, il riconoscimento dell’altro e la possibilità di agire sulla base di un principio morale mi sembra quanto meno un’operazione artificiosa ed anche disonesta intellettualmente.
Perché mai dovremmo sopprimere l’empatia? Perché si sente questo bisogno di insegnare ai bambini a non essere “sentimentali”, ovvero a reprimere l’empatia? Il fatto è che si deride l’empatia solo quando serve di giustificare un gesto che non ha nessuna necessarietà di essere compiuto, ma che trova la sua “normalizzazione” in un sistema che non si vuole mettere in discussione. Il padre che conduce con sé il figlio a cacciare per giustificare il proprio egoismo di fronte agli occhi del figlio incredulo e mosso a pietà dalla sofferenza dell’animale indifeso che ingiustamente muore (ingiustamente perché la caccia non è necessaria) non trova altro di meglio che raccontargli la fola dell”esistenza crudele, della natura crudele, dell’uomo costretto a compiere gesti crudeli suo malgrado. Eppure quel bambino non avverte dentro di sé quella crudeltà, quel bisogno di far male, di uccidere, avverte solo una profonda compassione. Una compassione che poi pian piano verrà completamente eradicata – e fatta apparire come inopportuna, indiscreta, imbarazzante, inutile – per assecondare e giustificare il sistema sociale dello sfruttamento del più debole.
Inoltre nella natura non vi è affatto crudeltà, ma solo necessarietà: “Male e bene non esistono, esistono solo le necessità” dice Bergman ne Il Posto delle Fragole. Il leone che insegue e sbrana la gazzella non commette infatti crudeltà, ma esegue semplicemente ciò che per lui è necessario per sopravvivere. Gli animali si mangiano tra loro, vero, così come gli arbusti più forti soffocano alcune piante, ma quello che noi facciamo agli altri animali non umani, ossia lo sfruttamento sistematico (e sistemico!) non ha equivalenti in natura, né può essere giustificato asserendo che la natura è malvagia e che il nostro istinto è fondamentalmente predatorio, poiché anche l’empatia fa parte del corredo genetico e culturale dell’uomo, così come di altre specie. Se quindi non è vero che la natura è crudele, ma solo necessaria, come possiamo pretendere di giustificare il nostro gesto arbitrario di privare della vita un altro essere vivente? In realtà continuiamo a farlo solo perché lo facciamo da tanto tempo. Ma non c’è alcuna giustificazione che possa davvero legittimare questo comportamento. Nè in natura, né culturalmente. Lo sfruttamento sistematico del vivente, uomo compreso, è un sistema che conviene solo a pochi, che favorisce l’accumulo e la ricchezza di quei pochi situati nella parte superiore della piramide sociale.
Come già scriveva Victor Hugo ne L’Uomo che ride: “tra chi opprime e chi è oppresso non c’è differenza a parte il luogo che occupano. I vostri piedi calpestano teste umane (….) State attenti al formicaio dolente che schiacciate (…) Questa società è falsa. Un giorno verrà la società vera. Allora non ci saranno più signori, ci saranno creature libere. Non ci saranno più padroni, ci saranno padri. Questo è l’avvenire. Niente più genuflessioni, niente più bassezza, niente più ignoranza, niente più uomini come bestie da soma, niente più cortigiani, niente più servi, niente più re, solo luce!”
Niente più uomini come bestie da soma, già perché alla base della piramide sociale basata sullo sfruttamento del vivente ci sono ovviamente gli animali, gli esseri più indifesi e deboli. Ma finché ci saranno animali degradati allo status di cose, ci saranno alcuni uomini che per motivazioni squisitamente politiche e di potere vorranno degradare altri uomini ad animali e quindi a cose.
Quello che bisogna capire è che un sistema siffatto è interamente basato sulla logica del potere e del mantenimento dello stesso da parte di pochi sui molti che costituiscono la massa. Ha quindi ragioni squisitamente politiche. E poiché la cultura riflette sempre il potere dominante, essa ci plasma sin dalla più tenere età a credere che l’esistenza si basi sulla legge di sopraffazione del più forte sul più debole. Come? Innanzitutto esortandoci a fare a meno del sentimento e dell’empatia e poi “normalizzando” lo sfruttamento del vivente. Ci inducono a credere che l’esistenza sia spietata, dura e feroce e quindi che ci convenga stare tutti con il coltello tra i denti pronti a sbranarci a vicenda. Questo fa il gioco di chi detiene il potere. Da sempre uno dei sistemi per stare ai vertici del potere è distrarre le masse e lasciare che si sbranino tra loro (come ben aveva ben capito Hitler, che permetteva – ed anzi incentivava – che i suoi gerarchi e sottoposti si facessero lo sgambetto a vicenda e tramassero l’uno contro l’altro, purché nessuno di essi osasse arrivare tanto in alto da contestare il dominio autocratico del Führer).
Diffondendo e perpetuando la menzogna della legge della giungla e della natura votata alla sopraffazione della specie umana non si fa altro che fare il gioco di chi ha tutta la convenienza politica di far credere ciò, ossia chi sta in alto, regola e gestisce le masse. Mantenere le gabbie fa comodo, soprattutto trattare gli animali nella maniera peggiore possibile aiuterà sempre anche l’ultimo dei diseredati del mondo a sentirsi comunque superiore e messo in condizioni migliori e questo farà sì che non si ribelli, che continui a credere che in fondo c’è sempre qualche vivente che sta messo peggio di lui. Le prigioni servono a ricordarci che siamo apparentemente liberi. Gli zoo ed i macelli ci ricordano che noi siamo apparentemente fortunati. In realtà siamo tutti vittime di un potere economico che ha ridotto il vivente a cosa, a merce di scambio delle varie economie globali. In realtà siamo tutti imprigionati, invischiati in questa ragnatela socio-culturale basata sullo sfruttamento che il sistema economico ci ha intessuto tutto intorno.
Vi diranno allora che piangere per un pesciolino appena pescato è da deboli, è da bambini che si devono svegliare e che devono prendere atto della crudeltà della natura in cui vige la legge della sopraffazione; ma la legge della sopraffazione non è invece affatto una legge di natura, come si è già detto, perché gli animali predatori semplicemente si nutrono delle prede, ma non le allevano, sfruttano e schiavizzano, bensì essa è un costrutto socio-culturale e, come tale, può essere analizzato e smontato; vi diranno che cacciare è da uomini forti e virili e che bisogna reprimere il sentimento della compassione perché è bene imparare sin da subito in quale mondo viviamo. Ma il mondo in cui viviamo lo abbiamo costruito noi e come tale potremmo anche de-costruirlo.
Ebbene, a me sembra che reprimere ciò che invece è veramente biologico – il sentimento della compassione e l’istinto morale – e convincere che invece sia “normale” e “giusto” sfruttare e uccidere altri esseri viventi, abbia un che di esageratamente artificioso.
Non siete convinti di ciò? Riflettete su questo: se davvero – così come vogliono farci credere gli oltranzisti della bistecca, i cacciatori e pescatori indefessi, i sostenitori della presunta teoria della legge della giungla – sfruttare ed uccidere migliaia di animali non umani è “normale”, “naturale”, “semplice” ed insito nel DNA della specie umana, come mai si rende allora necessario occultare e rimuovere dall’esperienza quotidiana tutti i luoghi dove avviene sistematicamente questo massacro? Come mai se davvero l’empatia è solo quel buonismo edulcorato che uomini puri e duri ritengono sia ridicolo ed inopportuno manifestare, si avverte la necessità di nascondere, camuffare – anche tramite il linguaggio, adoperando eufemismi o metafore non più riconducibili all’origine etimologica di determinate espressioni – e “normalizzare” la violenza di determinati luoghi?
Che bisogno c’è di rendere “presentabile”, appetibile ed asettica la bistecca allontanando quell’istintivo (questo sì, istintivo!) senso di colpa grazie all’ausilio di foto e loghi che mostrano l’animale di turno ridente e soddisfatto, così da convincere (illudere!) il consumatore che egli, l’animale, sia in fondo felice di donarci la propria carne? Che bisogno c’è di convincere e convincersi che in fondo sfruttare gli animali sia “naturale” se davvero lo fosse?
Soprattutto sono davvero stanca di ascoltare la menzogna che l’empatia sia un sentimento di cui bisogna fare a meno, e che invece si debba mantenere questo asserito – e non dimostrato – istinto primordiale a predare. Il sentimento della compassione è una componente essenziale, non accessoria, dell’animale, tanto umano che non umano, presente anche in molte altre specie. Negarlo, reprimerlo, rimuoverlo non ci renderà più adatti a vivere in un’esistenza in cui il dolore, la perdita, la malattia, la morte sono comunque ineliminabili, ma solo più infelici e nevrotici (debellare il senso di colpa e rimuovere la violenza dei nostri gesti è un comportamento stressante e foriero di nevrosi).
Certo, il dolore del vivere e la morte sono ineliminabili, ma proprio per questo perché aggiungerne dell’altro? Non posso fare a meno di stupirmi quando sento molti giustificarsi per il proprio mangiar carne perché tanto “quell’animale sarebbe comunque morto, tutti moriamo“. Certamente. Ma lasciamo che viva e muoia libero.
Addirittura mi è capitato di leggere astruserie del tipo che gli animali negli allevamenti e nei laboratori vivrebbero meglio perché lì almeno sarebbero al riparo dai loro predatori in natura ed avrebbero il conforto del caldo. Ma siamo pazzi? Solo chi è palesemente in malafede può affermare una cosa del genere. L’unica condizione davvero propizia, opportuna ed auspicabile di ogni essere senziente è quella del vivere libero nel proprio habitat. Tutto il resto risponde alle logiche distorte, deviate e devianti dell’asservimento al potere.
Non esiste un mondo crudele, una natura crudele, essa è semplicemente necessaria; esiste invece una società artificiosamente crudele che è possibile de-strutturare sin da ora, recuperando quella parte del nostro essere che così faticosamente ci vogliono convincere a sopprimere: la compassione, l’amore, l’empatia. Siamo nati per vivere liberi. Gli animali sono nati per vivere liberi. Magari un giorno di meno, ma liberi. Tutto il resto è propaganda del potere economico.
di Rita Ciatti