Il sistema reagisce. E noi gli diamo una mano
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un aumento esponenziale del numero di persone vegane e con esso anche la reperibilità di prodotti vegan nei supermercati, nonché un gran fiorire di ristoranti, punti vendita, e locali pubblici. Significa che “stiamo vincendo”, come dicono alcuni? Se intendiamo l’aver guadagnato una fetta di mercato e la possibilità di trovare prodotti vegani con più facilità rispetto a un decennio fa, allora probabilmente sì.
Non si comprende, però, come potrebbe portare alla liberazione animale il ridurre il veganismo a una semplice scelta alimentare personale, scelta che nulla o poco incide sulle dinamiche di oppressione e dominio di quella massa di schiavi a costo zero che sono gli Animali non umani e della loro considerazione all’interno di una società antropocentrica e specista fondata sul denaro, sui confini, sulle gerarchie e le esclusioni.
I social network hanno dato visibilità anche alle battaglie animaliste e ai contenuti più specificamente antispecisti e, sebbene le discussioni più serie e la loro portata filosofica e culturale raramente riescano a raggiungere giornali e TV (l’informazione teorica antispecista è per lo più di nicchia, e le riflessioni sull’attivismo sono circoscritte a ben precisi e numericamente limitati ambienti), qualche eco arriva anche all’esterno; il punto è che il messaggio giunge distorto e spesso pericolosamente snaturato.
Se si parla di animalismo, lo si fa solo e sempre quando qualche gruppetto o addirittura singolo – per nulla rappresentativo della poliedricità del movimento – si fa notare per qualcosa di negativo: risse verbali, aggressioni o banalizzazione del messaggio. Peggio ancora, si prende magari uno dei tanti commenti letti in rete e lo si cita come esempio di tutto un pensiero. Un po’ riduttivo, no? E’ possibile che la normalizzazione del fenomeno veganismo da un lato e la demonizzazione dell’attivismo animalista dall’altro, possano essere definite entrambe come reazioni del sistema funzionali al mantenimento dello status quo, per quanto apparentemente di segno contrario.
Cerchiamo di analizzarle entrambe.
Oggi il termine “veganismo” è senz’altro molto più comune di quanto lo fosse un decennio fa, ma quanti conoscono la vera portata del suo significato o ne discutono nella maniera corretta?
Il veganismo chiaramente non è meramente una questione legata a cosa si mangia o si decide di non mangiare, ma è un fenomeno molto più vasto e complesso e riguarda una presa di coscienza individuale e collettiva grazie alla quale nasce un gesto politico di rifiuto dello sfruttamento – in tutte le sue forme – degli Animali non umani, puntando al riconoscimento e al rispetto degli altri individui non umani nella loro diversità e singolarità. Ciò si tramuta – o dovrebbe tramutarsi – in una profonda e continua critica alla società umana e alle ingiustizie che la caratterizzano e connotano.
Invece questo contenuto fondamentale viene quasi sempre eluso, persino da noi vegani, che ci prestiamo sempre più spesso a rispondere a domande che con lo sfruttamento degli Animali non hanno nulla a che vedere e che non toccano minimamente l’etica e politica della filosofia vegana.
Il veganismo nasce come atto politico di rifiuto nel voler continuare a partecipare a un sistema che sfrutta gli Animali e che si adopera per il mantenimento di una cornice culturale e sociale che trae, a sua volta, giovamento dal mantenimento di esclusioni, gabbie e strutture di dominio; ma oggi questa istanza originaria sembra esser stata del tutto depotenziata a fenomeno di costume.
Una normalizzazione che avviene facendo emergere solo gli effetti superficiali di un fenomeno culturale molto complesso e spingendone i principi sul fondo. In sostanza, ciò che era un effetto, diviene contenuto, in una sorta di metonimia in cui il veganismo, anziché essere la logica conseguenza di una presa di posizione, ne diventa un debole portavoce che non è più in grado di esprimerne le ragioni, perché ha perso la sua reale identità e radicalità in favore della costruzione di una forma mediaticamente accettabile.
Oggi si diventa vegani per moda, per salute, per provare un piatto esotico, per curiosità e coloro che hanno scelto di diventarlo per ragioni esclusivamente etiche, si perdono sullo sfondo di questa moltitudine variegata priva di senso e di una confusione concettuale che i media generano e accrescono notevolmente.
Il pericolo più grande della normalizzazione è che il veganismo sia concepito come una maniera di alimentarsi tra le tante, magari da affiancare a quella tradizionale. Tutto questo accade perché i reali motivi per i quali si dovrebbe diventare vegani vengono taciuti. Non si parla della violenza sistematica che subiscono gli Animali negli allevamenti e nei macelli: corpi alla mercé del nostro dominio totale; non si mette in discussione la cultura specista in cui nasciamo – tanto meno si scalfisce la cornice che legittima ogni nefandezza a danno dei non umani –, tutt’al più si accenna qualche argomentazione indiretta come il danno ecologico degli allevamenti intensivi, subito liquidata con un “basta mangiare meno carne”.
Ma se giornali e TV parlano esclusivamente di veganismo nei termini che abbiamo visto, non si può certo ignorare il peso dell’informazione animalista e antispecista veicolata soprattutto su internet e sui social network.
Anche qui abbiamo purtroppo un problema qualitativo, sicuramente distorto e amplificato dai media, cui dovremmo porre rimedio, ma pure quantitativo e vediamo perché.
Uno dei numerosi limiti dei social network riguarda la modalità di divulgazione delle informazioni che raggiungono quasi esclusivamente chi è già interessato all’argomento trattato. Ciò ovviamente accade anche per notizie e informazioni animaliste e antispeciste.
L’idea di avere la possibilità di raggiungere una vasta platea di persone quando postiamo un video di denuncia, o scriviamo uno testo, è solo una mera illusione.
Il messaggio arriva alla nostra cerchia circoscritta di contatti, quelli che condividono le nostre stesse battaglie commentano – ce la suoniamo e cantiamo tra di noi – gli amici che non sono vegani a volte intervengono, ma quasi sempre passano oltre, e così via in una sorta di attivismo virtuale autoreferenziale che tanto più è pericoloso, quanto più ci dà l’illusione di aver fatto qualcosa di utile anche solo cliccando il tasto del mouse. Petizioni on line, pioggia di like, condivisioni massicce eppure per gli Animali continua a non cambiare nulla. Si chiede a chi condivide la nostra battaglia di attivarsi, ma ciò assomiglia sempre più a un soliloquio virtuale che anziché dare voce a coloro che non vengono ascoltati, finisce per coprirla sempre più.
Qualcosa – come detto – trapela all’esterno. Ed è qui che si nasconde l’insidia della demonizzazione dell’animalista medio. Che non si sa bene chi sia, ma è evidente che è il soggetto per il quale giornali e TV cercano di tracciare un profilo standardizzato. Succede così che da una moltitudine di persone umane estremamente varia se ne estrapolano le caratteristiche più banali, quelle che trovano riscontro soprattutto nei pregiudizi, e si crea l’utile stereotipo dell’animalista.
Purtroppo quanto esposto poc’anzi funziona talmente bene, che a volte finiamo per contribuirvi anche noi antispecisti, ossia mettiamo in atto, probabilmente senza rendercene conto, schemi e dinamiche predeterminati dal sistema specista: finiamo per recitare il ruolo che la società ci chiama a recitare per neutralizzarci.
Melanie Joy definisce questo meccanismo “reazione del sistema di secondo grado”. Ossia – secondo la psicologa statunitense che ha coniato il termine “carnismo” e che ha dedicato il suo lavoro a studiare la cultura della carne – tutti noi abbiamo introiettato così nel profondo gli aspetti della cultura carnista in cui siamo cresciuti, da provare una sorta di paura inconscia nel cambiamento, anche se a livello razionale è ciò che più desidereremmo.
Non è raro infatti trovare vegani che dileggiano o ridicolizzano altri vegani, o antispecisti che criticano pesantemente gli animalisti più ingenui (ciò non vuol dire che non debbano esserci le critiche costruttive, ma tra queste ultime e lo sfottò gratuito c’è un abisso), proprio usando le stesse battute del miglior copione dei nostri detrattori. Così come non è raro assistere a uno scivolare lento nell’identitarismo del vegano o dell’animalista che finisce così per assumere quei tratti stereotipizzanti e massificati, che sono proprio ciò che dovremmo combattere.
Sembra che non riusciamo ad affrancarci dai ruoli che la società decide per noi e continuiamo a rientrare nel solco del già noto, o in altri nuovi solchi tracciati ad hoc per incanalare – e così confinare e controllare – determinate istanze sovversive, che potrebbero essere realmente incisive se trovassero la forza di diventare popolari, ossia di penetrare nel pensiero comune, senza cadere nella demagogia, vale a dire mantenendo intatti i contenuti originari.
Il punto è che non dovremmo cedere alla tentazione dello scontro usando le regole “di ingaggio” che ci vengono imposte, perché nel momento in cui lo facciamo, abbiamo già perso.
La lotta per la liberazione animale prevede un cambiamento radicale della società umana e una società così rinnovata non può e non deve più sottostare alle vecchie regole, perché altrimenti, per parafrasare una celebre citazione, è come se volessimo cambiare tutto, per lasciare tutto sostanzialmente com’è.
Dovremmo in buona sostanza rifiutarci di accettare il veganismo come fenomeno di costume, così come la stereotipizzazione dell’attivista animalista. Come? Innanzitutto facendo battaglie più concrete e meno virtuali (tornando a scendere nelle strade, a ridivenire corporei e reali) e poi ricorrendo alle vere argomentazioni della liberazione animale che mantengono al centro il discorso sul dominio e sfruttamento degli Animali.
Diventare popolari va bene, ma attenzione a non svendere i contenuti nell’illusione che bastino semplicemente i numeri, perché sono facilmente fagocitabili dai meccanismi di un sistema che tende a sopravvivere attraverso i soliti noti meccanismi di esclusione-inclusione o assorbimento. Si esclude creando il “mostro” da emarginare e si assorbe accogliendo dalle nuove istanze solo gli effetti funzionali al sistema, ma occultandone le reali cause.
Così da un lato abbiamo la cucina vegana senza un’etica e dall’altro l’antispecismo trasformato in folclore animalista.
di Rita Ciatti fonte veganzetta.org