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Intensivo? Che ne dite se la piantassimo di usare questo termine

Difficile trovare un solo post, sfogliando tra le “principali” associazioni italiane dove non sia immancabilmente presente e specificato con cura. Un’evidente attitudine “comunicativa”, estremamente ricorrente e ormai di norma. La specifica immancabile del termine “intensivo“, ammette implicitamente, una volta specificato, un’alternativa -non intensiva-, fuorviando inevitabilmente la mente dell’interlocutore verso orizzonti “estensivi“, pseudo sostenibili o a dimensione “contadina“, e spostando drammaticamente il fulcro della questione animale dall’assassinio della vittima, punto cardine etico imprescindibile, al luogo in cui invece l’assassinio viene compiuto.

 

L’uccisione della vittima diventa così secondaria, paradossalmente un aspetto marginale e trascurabile perchè ora è il posto dove viene compiuta ad assumere rilevanza: il piccolo allevatore, il contadino, l’agriturismo, l’allevamento a conduzione familiare, e così via.

 

Non possiamo permetterci, proprio “Noi”, di essere fraintesi, di non essere chiari, di fornire addirittura direttamente o indirettamente espressioni ambigue, interpretabili, fuorvianti e che discostino in alcun modo il nostro messaggio dal concetto primario di abolizione della logica dello sfruttamento Animale e del contrasto alla cultura antropocentrica del dominio; e questo, naturalmente, non è funzionale alla scala in dimensioni e al luogo in cui esse vengono perpetrate e portate avanti.

La scelta quindi non è tra intensivo o non intensivo, la scelta è semplicemente tra vita e morte, tra giustizia e sopraffazione.

E allora, che ne dite se la piantassimo di usare questo termine?

Vi suggerisco la lettura del testo che segue, pubblicato da Codice A Barre e adattato da “Stop (Saying) Factory Farming” di Hope Bohanec. Un saluto!

Gaspare Messina

 


 

Il termine “allevamento non intensivo” implica che solo le condizioni in cui animali vengono tenuti prima di ucciderli siano rilevanti, ma che il fatto in sé di ucciderli non sarebbe un problema di carattere morale.

 

Gli esperti di marketing del settore degli allevamenti usano quel termine per far credere alla gente che finché non si tratta di un allevamento “industriale“, fintanto che non è una fattoria dalle dimensioni enormi, fino a quando l’animale ha una sorta di mini-vita “naturale” o “comoda“, allora va bene ucciderlo per il piacere del consumatore “coscienzoso“, il quale pensa di aver fatto la scelta giusta, mentre potrebbe evitare di finanziare quella violenza, facendo a meno di consumare cibi di origine animale.

 

Essere contro gli “allevamenti intensivi” non implica un messaggio vegano e non ha niente a che fare con la questione della liberazione degli altri animali. Chi usa quel termine rischia involontariamente di ripetere e rafforzare quello che è diventato uno degli slogan del marketing, che appartiene a chi ci si oppone, vale a dire l’industria di carne/latte/uova.

 

Quindi sarebbe il caso di non usare la parola “intensivo“, se vogliamo cambiare il paradigma in base al quale viene percepita la vita di un animale allevato.

 

Dobbiamo stare attenti all’uso di certe parole e ricordare sempre che ogni allevamento è sfruttamento, che implica necessariamente una violenza che possiamo evitare di commettere e che non potrà mai esistere un modo “umano” o “etico” di confinare, schiavizzare e uccidere altri animali per la loro carne, il loro latte e le loro uova. Intensivi o meno, tutti gli allevamenti portano al macello.

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