Fotografie testimoni della schiavitù moderna
Negli ultimi due anni, la fotografa Lisa Kristine ha viaggiato in tutto il mondo documentando la dura realtà della schiavitù moderna.
A TEDxMaui, essa ci mostra alcune immagini straordinarie, difficili da ignorare, come quelle dei minatori del Congo e dei muratori del Nepal, nella speranza di far luce sui 27 milioni di anime che ancora vivono in schiavitù in tutto il mondo…
Mi trovo a più di 45 m sotto terra in una miniera illegale del Ghana. L’aria è calda, spessa di polvere, e si fa fatica a respirare. Mi sento sfiorare da corpi sudati che mi passano a fianco nell’oscurità, ma non riesco a vedere molto altro. Sento delle voci, ma quasi tutto il pozzo è una cacofonia di uomini che tossiscono e di pietre infrante con arnesi primitivi. Come gli altri, ho una torcia economica che emette una luce tremolante, legata in testa con una fascia elastica ormai lacera, e a malapena distinguo i rami scivolosi che si arrampicano sui muri del foro ampio meno di un metro quadro e scendono per decine di metri sotto terra. Mi scivola una mano e all’improvviso mi ricordo di un minatore conosciuto qualche giorno prima, che aveva perso la presa ed era precipitato per decine di metri nel pozzo.
Oggi mentre io sono qui che vi parlo, questi uomini sono ancora là sotto, a rischiare la vita senza ricevere paga o compenso, spesso perdendo la vita.
Io ho potuto risalire quelle pareti e tornare a casa, ma è probabile che loro non lo facciano mai, perché sono schiavi.
Negli ultimi 28 anni, ho documentato le culture indigene di più di 70 paesi in sei continenti, e nel 2009 ho avuto il grande onore di essere l’unica artista in mostra al Summit per la pace di Vancouver. Tra tutte le persone straordinarie che ho incontrato, c’era un sostenitore di Free the Slaves, una ONG dedicata all’abolizione della schiavitù moderna. Abbiamo iniziato a parlare di schiavitù, e per la prima volta, ho compreso di cosa si tratti. Sapevo che esisteva, ma non a un tale livello. Al termine della nostra conversazione, sono rimasta malissimo. Onestamente, mi sono vergognata della mia ignoranza su una simile atrocità ancor oggi perpetuata, e ho pensato: se io non lo sapevo, quanti altri non ne sanno ancora nulla? Il pensiero ha cominciato a tormentarmi, e dopo poche settimane, ho preso un volo per Los Angeles per incontrare il direttore di Free the Slaves e offrirgli il mio aiuto.
E’ iniziato così il mio viaggio dentro la schiavitù moderna. Stranamente, ero stata in molti luoghi simili in passato. Alcuni li avevo persino considerati una seconda casa, ma stavolta ne vedevo gli scheletri nascosti nell’armadio.
Una stima conservatrice calcola che al mondo ci sono più di 27 milioni di persone che vivono in schiavitù. Il doppio delle persone prelevate dal continente africano durante l’intero periodo del commercio transatlantico di schiavi. 150 anni fa, uno schiavo contadino costava circa tre volte di più del salario annuale di un lavoratore americano. Il che equivale a circa 50.000 dollari in moneta attuale. Eppure oggi, possono essere schiavizzate intere famiglie per intere generazioni, a un costo di soli 18 dollari. La schiavitù genera profitti per oltre 13 milioni di dollari, in tutto il mondo, ogni anno.
Molti sono stati ingannati da false promesse di una buona educazione, un lavoro migliore, per poi scoprire di essere obbligati a lavorare senza una paga sotto la minaccia di violenza, e senza possibilità di andarsene.
La schiavitù di oggi ha a che vedere con il commercio, quindi, i beni che hanno schiavizzato la gente producono valore, ma la gente che li produce è un articolo usa e getta. La schiavitù esiste quasi ovunque nel mondo, ma è illegale dappertutto.
In India e in Nepal, mi hanno mostrato le fornaci per mattoni. Questa bizzarra e meravigliosa vista ricorda l’antico Egitto o l’Inferno di Dante. In ambienti a temperature di 130 gradi — uomini, donne, bambini, intere famiglie — si ritrovano coperti da pesanti strati di polvere, mentre accatastano mattoni sopra le proprie teste, come automi, fino a 18 alla volta, e li portano dalle fornaci infuocate dentro ai camion, a centinaia di metri di distanza. Sfiniti dalla monotonia e dalla fatica, lavorano in silenzio, ripetendo la stessa azione per 16 o 17 ore al giorno. Nessuna pausa per mangiare o bere, e la grave disidratazione fa sì che urinare sia praticamente impossibile. Il calore e la polvere erano così penetranti che la mia macchina fotografica bruciava al tatto e ha smesso di funzionare. Ogni 20 minuti, dovevo correre in auto a pulire l’attrezzatura e metterla sotto un condizionatore per riavviarla, e mentre lo facevo, pensavo: la mia macchina riceve un trattamento migliore di quello riservato a questa gente.
Dentro le fornaci volevo piangere, ma l’abolizionista accanto a me mi afferrò rapidamente e mi disse: “Lisa, non farlo. Non farlo laggiù.” E mi spiegò molto chiaramente che le manifestazioni emotive erano molto pericolose in un posto come quello, non tanto per me, ma per loro. Non potevo offrire loro alcun aiuto diretto. Non potevo dare loro soldi, nulla. Non ero una cittadina di quel paese. Avrei potuto farli finire in una situazione peggiore di quella in cui già si trovavano. Dovevo confidare in Free the Slaves per liberarli, operando all’interno del sistema, e ho avuto fiducia in loro. Per quanto mi riguarda, ho dovuto attendere il rientro a casa per sentire davvero il mio dolore.
Sulle montagne dell’Himalaya ho visto bambini trasportare massi per chilometri, giù per terreni montagnosi, per poi caricarli sui camion che li attendevano a valle. Le grandi lastre di ardesia erano più pesanti dei bambini che le trasportavano, e i bambini se le caricavano in testa servendosi di imbracature fatte a mano con bastoni, corde e indumenti stracciati. È difficile assistere a scene così opprimenti. Come possiamo cambiare qualcosa di così insidioso e al contempo pervasivo? Alcuni non sanno nemmeno di essere schiavi, gente che lavora 16-17 ore al giorno senza paga, perché così è sempre stata la loro vita. Non hanno possibilità di fare confronti. Quando gli abitanti del paese pretesero la propria libertà, gli schiavisti bruciarono tutte le loro case. Voglio dire, questa gente non aveva nulla, ed erano così terrorizzati che volevano andarsene, ma la donna al centro li ha incitati a perseverare, e gli abolizionisti presenti li hanno aiutati a trovare una cava da gestire da soli, così ora fanno lo stesso lavoro massacrante, ma lo fanno per se stessi, vengono pagati, e lo fanno in libertà.
Spesso pensiamo al traffico della prostituzione quando sentiamo la parola schiavitù, e proprio in ragione di tale consapevolezza mondiale, mi avvertirono della difficoltà di poter lavorare in sicurezza dentro a questa industria.
A Kathmandu sono stata scortata da alcune donne che in passato erano state schiave del mercato del sesso. Mi hanno accompagnato giù per una stretta rampa di scale che portava a un seminterrato sporco e scarsamente illuminato da una luce fluorescente. Non era una casa chiusa, di per sé, ma somigliava a un ristorante. I ristoranti di Cabin, così come si conoscono sul mercato, sono luoghi di prostituzione obbligata. Ognuno dispone di camerette private dove gli schiavi del sesso, donne, ma anche giovani ragazze e ragazzi, alcuni di soli sette anni di età, sono obbligati a intrattenere la clientela, incoraggiandola a consumare sempre più cibo e alcool. Ogni cubicolo è buio e squallido, identificato da un numero dipinto sul muro, e separato da una tenda e da una parete di compensato. I lavoratori spesso subiscono abusi sessuali terribili per mano dei clienti. In piedi, nella semi oscurità, ricordo di essermi sentita bruciare di paura, per un attimo, e in quel preciso istante, potevo solo immaginare cosa significasse essere intrappolati in quell’inferno. Avevo una sola via di uscita: le scale da cui ero entrata. Non c’erano porte sul retro. Non c’erano finestre abbastanza ampie da cui fuggire arrampicandosi. Queste persone non avevano vie di uscita, e nel parlare di un argomento così difficile, è importante dire che la schiavitù, incluso il traffico sessuale, si verifica anche dietro l’angolo.
Centinaia di persone vengono usate come schiavi nel lavoro agricolo, nei ristoranti, come servitù domestica, e l’elenco potrebbe continuare. Di recente, il New York Times ha segnalato che tra 100.000 e 300.000 bambini americani vengono venduti come schiavi del sesso ogni anno. E tutto avviene attorno a noi, eppure noi non lo vediamo.
L’industria tessile è un’altra a cui spesso pensiamo quando si parla di schiavitù. In India ho visitato villaggi in cui intere famiglie erano schiave del commercio della seta. Questo è un ritratto di famiglia. Le mani nere dipinte sono del padre, mentre quelle rosse e blu sono dei figli. Mescolano la tintura in queste grosse botti e sommergono la seta nel liquido fino ai gomiti, ma la tintura è tossica.
Il mio interprete mi ha raccontato la loro storia.
“Non abbiamo libertà”, hanno detto. “Ma speriamo ancora di poter lasciare questo posto un giorno e di andarcene altrove dove saremo pagati per il nostro lavoro”.
Si stima che più di 4.000 bambini vengano schiavizzati sul Lago Volta, il più grande lago artificiale del mondo. Appena arrivata, sono andata a dare un’occhiata veloce. Ho visto quella che sembrava una famiglia che pescava su una barca, due fratelli maggiori, qualche ragazzino. Normale, no? Sbagliato. Erano tutti schiavi. I bambini vengono separati dalle proprie famiglie; c’è un traffico di esseri umani: svaniscono nel nulla e devono lavorare per ore su queste barche, sul lago, anche se non sanno nuotare.
Questo bambino ha otto anni. Tremava quando la nostra barca si è avvicinata, era terrorizzato di venire travolto con la sua piccola canoa. Impietrito, temeva di cadere in acqua. Le membra scheletriche sommerse nel Lago Volga spesso vengono intrappolate nelle reti da pesca. I bimbi spaventati e affaticati vengono gettati in acqua per slegare le corde. Molti annegano.
Da che ha memoria, questo giovane è stato obbligato a lavorare sul lago. Terrorizzato dal padrone, non scapperà, e poiché l’hanno sempre trattato con crudeltà, egli la trasmette agli schiavi più giovani, sotto di lui.
Ho incontrato questi ragazzi alle cinque del mattino, mentre trascinavano l’ultima rete, ma erano al lavoro dall’una di notte, esposti al freddo e al vento. C’è da dire che queste reti pesano più di 400 chili quando sono piene di pesci.
Vorrei presentarvi Kofi. Kofi è stato preso in salvo da un villaggio di pesca. L’ho incontrato in un centro di accoglienza di Free the Slaves dove vengono riabilitate le vittime della schiavitù. Qui lo vedete mentre fa il bagno nel pozzo, gli stanno versando in testa dei grossi secchi d’acqua, ma la notizia magnifica è che, mentre noi siamo qui seduti, Kofi si è riunito con la sua famiglia, e non solo, alla sua famiglia sono stati dati gli strumenti per guadagnarsi da vivere e mantenere i figli al sicuro. Kofi incarna questa possibilità. Chi diventerà grazie a chi ha preso una posizione a suo favore e gli ha cambiato la vita?
Qui siamo in macchina, nel Ghana, con alcuni partner di Free the Slaves, un abolizionista su una moto ha accelerato all’improvviso, ha accostato il nostro mezzo e ha picchiettato sul finestrino. Ci dice di seguirlo per una strada fangosa nella giungla. Alla fine della strada, ci intima di uscire dalla macchina, e dice all’autista di andarsene in fretta. Poi ci indica questo sentiero quasi invisibile, e ci dice: “Questo è il sentiero, questo è il sentiero. Andate!” Mentre percorrevamo il sentiero, ci facevamo strada tra i vigneti che ostacolavano il passaggio, e dopo un’ora circa di cammino, abbiamo trovato il sentiero inondato dalle recenti piogge, così mi son messa in testa l’attrezzatura mentre scendevamo con l’acqua fino al petto. Dopo due ore di cammino, il sentiero tortuoso e’ finito improvvisamente in una radura. Davanti a noi c’era un’enorme quantità di buche, in un’area pari a quella di un campo da calcio, erano tutte piene di schiavi al lavoro. Molte donne avevano i figli legati dietro la schiena mentre cercavano l’oro, avanzando a fatica nell’acqua contaminata dal mercurio, che viene utilizzato nel processo di estrazione.
Questi minatori sono schiavi in una miniera in un’altra zona del Ghana. Quando sono usciti dal pozzo, erano fradici di sudore. Ricordo di aver guardato dentro ai loro occhi stanchi, rossi di sangue, molti di loro erano stati sottoterra per 72 ore. I pozzi erano profondi più di 90 metri, e portavano pesanti sacchi pieni di pietre, che sarebbero poi stati trasportati in un’altra area, dove la pietra veniva ridotta in polvere per poterne estrarre l’oro.
A prima vista, in quest’area sembravano esserci solo uomini forti, ma poi guardando più da vicino, abbiamo visto alcuni uomini meno robusti lavorare ai margini, e anche dei bambini, Tutti possibili vittime di infortuni, malattie e violenze. In effetti, è molto probabile che questa persona corpulenta finisca come questa qui – rachitica, per via della tubercolosi e dell’avvelenamento da mercurio in pochi anni.
Ecco Manuru. Quando suo padre è morto, lo zio lo ha venduto per farlo lavorare insieme a lui nelle miniere. Quando lo zio è morto, Manuru ha ereditato il debito dello zio, che lo ha costretto ad essere uno schiavo nelle miniere. Quando l’ho incontrato, lavorava nelle miniere da 14 anni, e l’infortunio alla gamba che vedete qui si è verificato in una miniera: era così grave che i dottori gli dissero che la gamba doveva essere amputata. Oltre a questo, Manuru soffre di tubercolosi, ma è ancora costretto a lavorare tutti i giorni nel pozzo.
Ciononostante, ha ancora un sogno: diventare libero e studiare grazie all’aiuto di attivisti locali come Free the Slaves, ed è proprio questo tipo di determinazione, seppur in presenza delle inimmaginabili circostanze avverse, che mi riempie di totale ammirazione.
Desidero gettare una luce sulla schiavitù. Quando ero al campo, ho portato tante candele con me, e con l’aiuto del mio interprete, ho spiegato alla gente che stavo facendo delle foto, che volevo far luce sulla loro storia e la loro condizione, così quando era sicuro per loro e per me, ho scattato queste immagini. Sapevano che queste immagini sarebbero state viste da persone come voi, in tutto il mondo. Volevo far loro sapere che avranno dei testimoni e che faremo il possibile per aiutarli a cambiare la loro vita. Credo sinceramente che, se riuscuremo a considerarci esseri umani simili, sarà molto difficile tollerare atrocità come la schiavitù. Queste immagini non sono temi, sono persone, persone vere, come voi, come me, e meritano tutte gli stessi diritti, la stessa dignità e lo stesso rispetto nella loro vita. Non passa un solo giorno senza che mi metta a pensare a tutte queste meravigliose persone maltrattate che ho avuto il grande onore di incontrare.
Mi auguro che queste immagini risveglino una forza in coloro che le vedono, nelle persone come voi, e mi auguro che tale forza accenda un fuoco, e che questo fuoco faccia luce sulla schiavitù, perché, senza quella luce, l’orrore della schiavitù può continuare a vivere nell’ombra.
Grazie
Lisa Kristine