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Alcune considerazioni su specismo e antispecismo

Penso alle mucche, ai vitelli, al toro; capre e pecore e perfino […] all’umile maiale, come a rappresentazioni celesti: mansuete, dolorose sempre, benevole sempre, magnifiche. Non vedo perché l’uomo debba pensare che gli appartengono, che sono suoi propri, che può distruggerli, usarli. Concetto tra i più barbari e nefasti, da cui procede tutta la immedicabile violenza umana, l’essere micidiale della storia, la cui meta sembra solo l’accrescimento di sé, tramite il possesso e la distruzione dell’altro da sé. [… ] Più uccidiamo e più siamo uccisi. Più degradiamo e più siamo degradati.
Anna Maria Ortese

Il termine specismo è stato introdotto nel 1970 da Richard D. Ryder, psicologo inglese che ha ripudiato per motivi etici la sperimentazione animale, ed è stato reso popolare da Peter Singer nel suo libro Liberazione animale del 1975. Secondo Singer, specismo è:

«Un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie».

Sempre Singer ritiene lo specismo parte integrante di quella lunga serie di violazioni del principio di eguaglianza, che hanno nel razzismo e nel sessismo le loro espressioni intraspecifiche più note:

«Il razzista viola il principio di eguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della sua razza qualora si verifichi un conflitto tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei membri di un’altra razza. Il sessista viola il principio di eguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso. Analogamente, lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori dei membri di altre specie. Lo schema è lo stesso in ciascun caso».

In breve, lo specismo utilizza delle innegabili differenze biologiche tra umani e non umani al fine di accordare agli umani e ai soli umani uno stato morale privilegiato. Questo può avvenire, in maniera più rozza e più facilmente screditabile, tramite l’appello diretto all’appartenenza di specie (“Gli umani sono titolari di uno stato morale privilegiato in quanto appartenenti alla specie Homo Sapiens”) – “specismo incondizionato” – oppure, in maniera più sofisticata, sostenendo che l’appartenenza alla specie Homo Sapiens conferisce delle caratteristiche moralmente rilevanti (quali l’anima, il linguaggio, l’autocoscienza, l’essere un agente morale, la capacità di comprendere e sottoscrivere un contratto sociale, ecc) non possedute da altre specie, caratteristiche ritenute necessarie per il riconoscimento di uno stato morale privilegiato – “specismo condizionato”.

 

Lo specismo “incondizionato” si basa essenzialmente su un ragionamento di tipo circolare che, seppur dominante fino a pochi decenni fa, è oggi totalmente screditato. La nostra elaborazione morale ha, infatti, ormai definitivamente acquisito quanto già inteso da Jeremy Bentham, e cioè che semplici differenze biologiche non possono costituire dei criteri per accordare una differente considerazione morale a soggetti con le medesime caratteristiche rilevanti sotto questo riguardo. Per gli stessi motivi, per cui, con grande fatica, siamo riusciti a capire che le donne non hanno minori interessi/diritti degli uomini, o che i neri non hanno minori interessi/diritti dei bianchi, dovremmo a questo punto superare definitivamente anche lo specismo “incondizionato”.

 

Lo specismo condizionato può essere articolato sotto tre capitoli principali: il possedere o meno un’anima immortale, l’essere o meno un agente morale, il possedere o meno la razionalità. Anche se uno iato così definitivo tra la nostra e le altre specie è minato alle fondamenta dalla teoria darwiniana e dalle acquisizioni scientifiche post-darwiniane e tralasciando laicamente la questione dell’anima, nessuna di queste proposte normative regge, comunque, all’urto dell’argomentazione razionale.

 

Si definiscono agenti morali quegli individui in grado di giudicare la valenza morale delle proprie azioni. Sono invece pazienti morali quegli individui che subiscono gli effetti di un’azione, senza però essere a loro volta in grado di compiere delle azioni morali. A parte il fatto che in sede di elaborazione filosofica non tutti concordano che solo gli appartenenti alla specie Homo Sapiens siano agenti morali, esiste ormai un accordo consolidato che riconosce agli altri animali lo stato di pazienti morali. Testimonianza di ciò è il fatto che in tutti i Paesi, pur mantenendo i non umani nello stato giuridico di beni di proprietà, proliferano leggi sul cosiddetto “benessere animale”, leggi che non avrebbero senso se gli animali non umani fossero semplicemente pura res extensa, meri automi naturali, macchine perfettamente congegnate dalla divinità a funzionare senza sentire, «orologi», secondo il dettato e la terminologia di René Descartes. Ma essere pazienti morali non significa essere privi di interessi o non essere titolari dei diritti fondamentali; infatti, il fatto che un individuo non possa svolgere un’azione morale, non significa che non possa subirne le conseguenze. In sostanza, questa versione dello specismo confonde il come, ossia la possibilità della morale, con il cosa, ossia l’oggetto della morale e, in una visione egualitaria, viene empiricamente screditata dal trattamento accordato ai cosiddetti umani marginali. Gli umani marginali (ad esempio, bambini anencefalici e soggetti con gravi deficit neurologici) sono del tutto incapaci di compiere azioni morali, ma non per questo vengono “mangiati” o “sperimentati”. Quindi, l’essere o meno un agente morale non può costituire quel criterio discriminante per tracciare la linea al di là della quale non ha senso parlare di considerazione morale.

 

L’altra versione dello specismo condizionato si rifà alla nozione di razionalità. Tralasciando altre versioni dell’appello alla razionalità, questo è stato fondamentalmente declinato, con forte ascendenza hobbesiana, come capacità di siglare un contratto sociale, una qualche forma di accordo: riconosciuta la reciproca potenziale pericolosità e i vantaggi del vivere in un ambiente sociale pacificato, esseri razionali ed egoisti accettano, in un contratto ideale, di limitare le reciproche pretese per incrementare le proprie chance di vita. Poiché gli animali non umani non partecipano a tale contratto, essi sono anche esclusi dai benefici che tale contratto accorda. Tale linea argomentativa non è solo contraddetta (ancora una volta) dal trattamento riservato agli umani marginali, ma anche dai suoi stessi più recenti sviluppi. Un esponente di rilievo di tale dottrina è, infatti, John Rawls, che in Una teoria della giustizia sostiene che la promulgazione di norme sociali che rispettino il principio di giustizia richiede che i soggetti coinvolti operino come se non fossero ancora venuti al mondo, come se fossero dietro a un velo di ignoranza. Nella condizione originaria, gli individui non sapendo quale sarà la loro classe, razza, genere, ecc di appartenenza una volta “gettati” nel mondo reale (essendo cioè individui non interessati, ma essendo informati ed egoisti), non sosterranno di certo norme discriminatorie sulla base di queste caratteristiche, norme che potrebbero avere per loro stessi una valenza estremamente negativa una volta nati. In un’ottica antispecista, Rowlands allarga un po’ il discorso di Rawls e ci domanda come ci comporteremmo se rendessimo solo un po’ più spesso il velo di ignoranza e cioè se nella situazione originaria non sapessimo neppure quale sarà il nostro genotipo. Lasceremmo immutato lo stato morale e giuridico degli altri animali se non sapessimo, ad esempio, se saremo destinati a nascere umani o maiali?

 

Riassumendo, lo specismo condizionato è stato confutato sia sul piano speculativo sia su quello empirico. Speculativamente, risulta difficile accordare diritti (nella terminologia deontologica) o riconoscere interessi (nella terminologia utilitarista) fondamentali, quali quello alla vita, all’integrità fisica e alla libertà, sulla base di caratteristiche differenti dall’essere “soggetti-di-una-vita” o dalla capacità di provare piacere/dolore. Il riconoscimento che almeno la maggioranza, se non la totalità, degli altri animali condivide con noi una serie di caratteristiche identiche sotto tutti gli aspetti moralmente rilevanti indica, al di là di ogni ragionevole dubbio, che questi debbono rientrare nella sfera della considerazione morale. Pertanto, l’essere un agente morale, l’avere un’anima immortale, o l’essere in grado di sottoscrivere razionalmente un contratto sociale non hanno rilevanza morale alcuna, tanto quanto non ne hanno il colore della pelle (razzismo) o l’appartenenza di genere (sessismo) nel definire chi possiede, nell’ambito della nostra specie, una particolare serie di diritti/interessi. Empiricamente, se vogliamo mantenere la corretta intuizione preriflessiva che accorda agli umani marginali uno stato morale privilegiato (nonostante questi individui siano privi delle caratteristiche paradigmatiche della nostra specie), senza derogare al principio di eguaglianza (tale per cui si accorda identico trattamento a chi ha identiche caratteristiche), dobbiamo necessariamente abbandonare anche qualsiasi forma di specismo condizionato.

 

Lo specismo non è, però, solo una dottrina accademica più o meno sostenibile, ma, tramite il suo dispositivo “differenza=gerarchia”, ha anche degli importanti risvolti pratici. Grazie infatti alla sua svalutazione in sede teorica degli animali non umani a puri oggetti totalmente disponibili, lo specismo ne rende possibile nella pratica, tramite la loro assimilazione a beni di proprietà e di consumo (merci), lo sfruttamento e l’uccisione a vantaggio di qualunque interesse umano. Per questo motivo il sociologo americano David Nibert definisce lo specismo come:

«Un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali».

Anche se resta difficile, se non impossibile, definire se storicamente sia nata prima l’ideologia specista che ha poi reso possibile lo sfruttamento degli altri animali o se, all’opposto, la nascita dello sfruttamento degli altri animali abbia reso necessaria la formulazione di un’ideologia giustificazionista, la definizione di Nibert è importante in quanto introduce un concetto fondamentale e cioè che l’ideologia specista è inestricabilmente legata a una serie di pratiche altrettanto speciste e che i due poli dello specismo si alimentano vicendevolmente. Questo “cortocircuito” tra ideologia e pratiche speciste è ben riassunto da Joan Dunayer laddove afferma:

«Ogni volta che vedete un uccello rinchiuso in gabbia, un pesce confinato in una vasca, o un mammifero non umano legato a una catena, state vedendo lo specismo. […] Se ritenete che gli umani siano superiori agli altri animali, state approvando lo specismo. Allorquando visitate un acquario o uno zoo, assistete a uno spettacolo circense con animali, vestite capi in pelli o pellicce o mangiate carne, uova o prodotti caseari, state mettendo in pratica lo specismo. Se sostenete campagne a favore dell’uccisione “umanitaria” dei polli o per condizioni di allevamento meno crudeli per i maiali, state perpetuando lo specismo»

 

Sulla base di queste considerazioni, nel 2004 la stessa autrice ha formulato una nuova definizione di specismo, secondo la quale per specismo si dovrebbe intendere:

«L’incapacità, nel modo di pensare o nella pratica quotidiana, di accordare ai non umani uguali considerazione e rispetto».

Da quanto detto, lo specismo, quindi, non è che un altro dei molti pregiudizi irrazionali, infondati e infondabili, del tutto identico a quelli con cui la nostra specie si è resa responsabile di un ininterrotto susseguirsi di orrori a carico di gruppi umani ritenuti “inferiori” (cioè moralmente assimilabili agli altri animali). Anzi, per molti pensatori, lo specismo andrebbe considerato come l’aspetto fondativo di quel pensiero dualistico che istituisce scale gerarchiche tra esseri moralmente simili sulla base di mere differenze biologiche che, come tali, sono completamente irrilevanti sul piano della considerazione etica. In questo senso, lo specismo sussumerebbe in sé tutte quelle ideologie che intendono tracciare una linea invalicabile tra noi e loro, qualunque siano i “noi” e qualunque siano i “loro”, dove ai “noi” sono concessi diritti e dominio e ai “loro” sofferenza e oppressione.

 

Nelle parole di Theodor W. Adorno:

«L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom».

Specularmente, l’antispecismo può essere visto come lo sviluppo storico di quelle ideologie che prevedono la progressiva sostituzione di visioni del mondo gerarchiche con presunzioni a favore dell’eguaglianza. In questo senso, l’antispecismo è quella rivoluzione morale copernicana che attualizza le migliori intuizioni della nostra tradizione culturale, che storicamente ha tradito il suo essere più profondo (cioè la richiesta di eguale considerazione per tutti coloro che condividono le medesime caratteristiche moralmente rilevanti), proponendo, nelle parole di Nozick, una morale kantiana per gli umani (“Tutti gli uomini vanno trattati come fini e non come mezzi per fini altrui”) e una morale utilitaristica per gli altri animali (“Non si deve incrudelire verso gli animali fintanto che questo non confligga con un qualche interesse umano”). L’antispecismo, infatti, accogliendo gli sviluppi più recenti della filosofia morale e le acquisizioni empiriche sulla complessità mentale degli altri animali inserisce questi ultimi a pieno diritto all’interno della sfera della considerazione etica, sbarrando definitivamente la strada sia a teorie perfezionistiche sia a teorie ambientaliste di stampo olistico, portando così diritti/interessi umani e diritti/interessi degli altri animali su un terreno più solido e sicuro. In questo senso, una definizione matura di antispecismo potrebbe riprendere quella di Joan Dunayer, modificandola nel modo seguente:

«Antispecismo, che necessariamente non può non includere in sé teorie emancipative intraspecifiche, è l’acquisizione nel modo di pensare o nella pratica quotidiana, della necessità di accordare ai non appartenenti al proprio gruppo uguali considerazione e rispetto»

Riconosciuti gli altri animali come fini e non come mezzi, attualizzando così l’imperativo morale kantiano che autocontradditoriamente si era arrestato sulla soglia di insignificanti confini biologici, la pratica dell’antispecismo non può non tradursi, come sottolineato dai filosofi del diritto Gary L. Francione e Steven M. Wise, nella richiesta della modificazione dell’attuale stato giuridico degli animali non umani, non più da normare come beni di proprietà, ma da trattare come portatori dei diritti/interessi fondamentali alla vita, alla libertà e alla non-sofferenza. Nell’attesa di questo momento e al fine di avvicinarlo, la richiesta di un movimento antispecita maturo dovrebbe essere quella riassunta efficacemente da Tom Regan, quando afferma:

«Dobbiamo svuotare le gabbie, non renderle più grandi».

di Massimo Filippi – Fonte: Oltre la specie

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